IL FRUTTO DELL'INFINITO

di Bruno Corzino

 

Mangiare materia

“Siamo ciò che mangiamo”. Si tratta di una frase del filosofo Ludwig Feuerbach, sostenitore di un accanito materialismo e tra le altre cose di una teoria che prevedeva che Cristo e gli apostoli fossero una compagnia di amici che d’un tratto, per una burla (e forse noia) decisero di “mettere su” una religione. Il paradosso divertente del materialismo è che una volta affermato questo, ovvero che non siamo altro che ciò che mangiamo (non siamo che corpo ed il corpo si costituisce a partire dal cibo ingerito), questo stesso ideale lascia l’alimentazione (che dovrebbe quindi essere la cosa più importante in assoluto) al caso, o meglio alla “libertà del singolo”, quindi a quello che si trova sotto mano, ai suoi complessi mentali ed ai pregiudizi della “tradizione”. Infatti, paradossalmente, in nessuna cultura si presta così poca attenzione all’alimentazione come in occidente, dove gli unici criteri sono dati dal riempire lo stomaco, l’avere un sapore piacevole e (ultimo ma spesso preponderante) avere una buona confezione, un buon “nome” o marca. Diversamente vanno le cose, ad esempio presso l’ordinamento tradizionale indiano, dove per ogni corporazione (impropriamente definita “casta”) è prevista una diversa alimentazione: vegetariana e priva di alcool per il sacerdote, ricca di carne e salse rinvigorenti per il guerriero-funzionario pubblico, volta al piacere ed al recupero delle energie per agricoltori ed operai, ai quali  concessa la più ampia libertà, ammettendo anche alcool e sostanze narcotiche quali la marijuana. Come si vede anche qui l’assunto di base è il postulato “siamo ciò che mangiamo”. Tuttavia qui l’assunto non muore sul nascere come semplice motteggio polemico, ma è la base su cui si fonda una teoria della società (e della coscienza) oggettiva e conseguente, dal momento che la corporazione è “fatta” dall’alimentazione dei suoi membri. L’alimentazione darà luogo infatti a diversi stati di coscienza, a diversi pensieri e diversi comportamenti, adatti alle funzioni sociali che si compenetrano l’una nell’altra: così il destino individuale e quello della società non sono più in contrasto ma vanno di pari passo. La coscienza sarà infatti indirizzata verso la contemplazione e lo studio nel sacerdote-studioso, verso l’attività e la lotta all’ingiustizia per il funzionario-guerriero, verso la produzione ed il godimento per agricoltori ed operai. Diversamente in occidente, dove si postula un’uguaglianza di base (tutta teorica, presunta) che dovrebbe corrispondere quindi al triste scenario di un alimentazione uguale per tutti (cosa peraltro caldeggiata da molti utopisti progressisti). Tuttavia questo appare ai più come uno scenario terrificante ma soprattutto lesivo di quello che questa uguaglianza teorica vorrebbe salvaguardare, ovvero la “libertà individuale”. Non abbiamo qui la pretesa di dare una definizione o analizzare cosa sia questa “libertà individuale”; ci limiteremo a vedere cosa significa in pratica al livello dell’alimentazione. Tale libertà, infatti, non si traduce in altro che in quattro punti: 1) ciò che si trova di fatto disponibile; 2) le manie ed inclinazioni personali dovute a complessi (anoressia, bulimia, ma anche solo forme lievi e comunissime come fame nervosa, inappetenza da stress ecc.); 3) i pregiudizi ed i legami dovuti alla “tradizione locale” ovvero al tipo di alimentazione che si è avuto durante l’infanzia e che viene collegato al gruppo sociale a cui si sente di appartenere; 4) il giudizio sociale, il “nome” o marchio apposto su un certo cibo che gli conferisce “bontà” sia per il gusto che per la salute che chissà per cos’altro; questo aspetto viene spesso definito “gusto”. Questo aspetto nella società occidentale moderna è pilotato dall’alto dall’industria e dai media, quindi il “gusto” è definito solo e soltanto in base a considerazioni di lucro e denaro, variabili di volta in volta e chiaramente avulse da qualsiasi considerazione su sapore, salute, convenienza di produzione ecc. Il risultato di queste “libere scelte” è la personalità individuale, almeno nella misura in cui essa è data dal cibo (anche se i materialisti ovviamente, con grande contraddizione, tendono ad affermare che la loro coscienza è pochissimo influenzata dal cibo, ma è “libera”, smentendo i loro stessi assunti). Ecco quindi configurato il contrasto tra la “personalità individuale” (lasciata al caso) ed il ruolo sociale che si dovrà ricoprire (anche questo nella società industriale lasciato al caso). Si è quello che “si vuole” e si riesce a raggiungere “secondo il proprio merito”: solo che è evidente che è il caso a generare sia la prima che la seconda condizione. La loro concordanza sarà quindi solo dovuta al caso, ma è evidente che la maggior parte delle volte l’individuo si troverà per forza di cose in contrasto col ruolo che la società gli richiede (e si vorrebbe scelto da lui stesso in base alle sue capacità).

 

Mangiare pensiero

 

Chiudiamo questa parentesi per sottolineare come la scarsa attenzione all’alimentazione (paradossale per chi si proclama materialista!) sfocia in un’altrettanto scarsa attenzione all’alimentazione dello spirito. Il legame tra alimentazione e pensiero è stretto e la lingua lo testimonia fornendoci un florilegio di metafore: si dice infatti “assimilare una conoscenza”, “divorare un libro”, di un discorso o una persona “non lo digerisco”, di una storia che è “gustosa” o “piccante”, di una battuta che è “salata”, di un pensiero triste che è “amaro”, di un sogno o bella immagine che è “dolce”. Se si vuole un paragone ancora più “fisico” si pensi alla pratica antichissima, comune all’antico scriba sumero ed egizio, come anche alla medicina tradizionale islamica e cinese, di ingerire papiri o fogli di carta su cui sia stata scritta una certa formula magica, per acquisire una certa qualità o per ottenere guarigione. Nella Bibbia Dio dice ad Ezechiele: “Figlio d'uomo, ciba il tuo ventre e riempi le tue viscere con questo rotolo che ti do.”, Ezechiele obbedisce ed acquisisce conoscenza e capacità di predicare ad Israele. (Ezechiele 3:1-3)

Tuttavia sembra che anche qui l’occidentale si trovi senza guida: le informazioni, l’educazione che riceve sono infatti affidate al caso più che ad una via, ad un filo rosso in grado di guidare la persona verso un traguardo qualsivoglia. Così come accade nel cibo, anche riguardo al pensiero l’uomo occidentale moderno lascia al caso la scelta delle informazioni, delle riflessioni  e delle visioni del mondo che assimila e che determinano la sua vita. Infatti, con un esatto parallelismo col cibo, possiamo dire che ci si affida: 1) a quello che offrono i media (tv, giornali, sentito dire, ecc.), quindi si è in balia di ciò che si vuole che si sappia; 2) le “inclinazioni personali”, che anche qui, non sono altro che un risultato del vissuto della persona con cui l’individuo dovrebbe identificarsi. Non vogliamo qui negare la giustezza di seguire le proprie inclinazioni e coltivare i propri talenti, ma bisogna appunto distinguere tra reali talenti e semplici “inclinazioni”, che sono al pari di complessi; 3)ciò che si insegna come “educazione tradizionale”, quindi la “storia patria”, la propria lingua e l’insieme delle nozioni ritenute importanti dalla società locale; 4) alla “cultura accademica”, quindi al giudizio degli “esperti”, dei “divulgatori scientifici”, di ciò che la società “acculturata” ritiene vero e giusto in un dato momento ed in un dato luogo. Così la persona leggiucchia romanzi che riguardano le sue ossessioni (ad esempio chi è ossessionato dal macabro o chi dall’amore che non ha ecc.), legge riviste, o nella stragrande maggioranza dei casi si affida a ciò che propinano televisione e giornali. In altre parole è in pura balia degli interessi del momento, vaga senza un filo rosso che sia in grado di guidare i suoi passi verso una meta qualsivoglia che può essere il piacere (contadini ed operai), la giustizia e la rettitudine (funzionari-guerrieri), la conoscenza ed il risveglio (sacerdoti-studiosi). Al contrario l’uomo massificato vaga, vaga nel nulla e nulla raggiunge. Si contorce come una serpe o un verme nella polvere della mancanza di senso che lo circonda. Lo stesso verbo “errare” indica che vagare senza senso, nel non-senso, è sbagliare.

Ma torniamo all’alimentazione: quindi l’uomo occidentale moderno, anche nel campo del pensiero, non bada a cosa “mangia”, inghiotte bocconi a caso guidato dalla necessità e dal sapore esteriore, ignaro delle conseguenze e della salute dell’intelletto. Questo vale una volta di più per i miti, le immagini che plasmano la realtà come dei “complessi collettivi”, che colpiscono la società intera. La conoscenza legata alla manipolazione dei miti era un’arte assai conosciuta e sfruttata nell’antichità: chi detiene la chiave dei miti ha anche il potere politico e (come fa notare in modo ossessivo Nietzsche) di quello morale, di conseguenza di tutte le azioni e le sensazioni degli uomini. Tuttavia l’uomo occidentale non “crede” nei miti, ovvero non è consapevole di come essi agiscono su di lui, plasmano la sua psiche, il suo comportamento, i suoi stessi pensieri. Non “crede” che un racconto, un’immagine possano agire su di lui e determinarne la stessa personalità, la stessa essenza. Poi però comprano una vettura gigantesca con stemmi di bestie feroci, corre ad acquistare il prodotto che fa tanto bene perché è “biologico” dove la parola sulla confezione è intrecciata di fiori e così via. Crede nella conoscenza empirica che ricalca il mito di Prometeo che ruba il fuoco degli dei per darlo agli uomini (così il Frankenstein o nuovo Prometeo della Shelley non è altro che il moderno biologo), alla lotta contro una fede oscurantista cui si oppone un “illuminismo” (Galileo condannato dalla Chiesa; anche qui non si esita ad inventare leggende come quella che lo vorrebbe salito sulla Torre di Pisa a gettare pesi – per inciso la differenza dei tempi di caduta sarebbe stata troppo breve da misurare consistendo in decimi di secondo). Ancora, crede in una scienza illuminata che nasce da intuizioni e conquiste “eroiche” di singoli uomini, scienziati divini, come la scoperta della gravità da parte di Newton dopo la caduta sulla sua testa di una mela (anche questa una leggenda, inventata da Voltaire).

 

Mangiare miti

 

E veniamo così all’argomento vero e proprio dell’articolo. Che differenza passa tra il credere al mito di Newton che inventa la gravità colpito dalla mela ed invece a quello di Adamo ed Eva nel paradiso terrestre che mangiano una mela, frutto che Dio aveva proibito loro di mangiare? Un’analisi molto spassionata, da biologo critico e curioso, è stata compiuta nell’opera meritevole di Giuseppe Sermonti La mela di Adamo e la mela di Newton, a cui non possiamo far altro che rimandare il lettore. Ciò che invece ci preme è di andare ancora più in profondità, ovvero di scavare oltre la mela, per giungere alle origini stesse del concetto di “frutto del peccato”. Vedremo che tale frutto si identifica o è gemello del “frutto dell’immortalità” o “della vita”.

La nostra domanda sarà: che differenza fa, nella costituzione psichica dell’uomo e nel suo modo di vivere e vedere il mondo, il “mangiare” diversi frutti mitici? In altre parole che differenza fa se nel paradiso terrestre o nel cielo raggiunto a fatica l’eroe o il capostipite dell’umanità mangia una mela piuttosto che una pianta acquatica o poniamo è colpito in testa da un fico? L’occidentale si è pappato senza battere ciglio prima la mela di Adamo e poi quella di Newton (che hanno dato costituzioni psichiche e modi di vita assai diversi pur essendo sempre mele: si pensi al cattolicesimo medioevale ed al clima illuminista e scientista). Come abbiamo visto egli non “crede” nei miti, quindi non si è fatto domande ma ha subito la metamorfosi e tanto basta. Tuttavia nella stessa Genesi non si parla affatto di mele!

Il responsabile principale dell’equivoco fu San Girolamo, autore della maggiore traduzione della Bibbia in latino, sviato probabilmente da un’assonanza del testo greco. Tuttavia l’equivoco durò ed ebbe tanta fortuna perché in latino la parola “malum” indica sia la mela che il male, e come dicevano i latini “nomen omen” ovvero il nome è già in sé un presagio. Ecco che il generico “frutto” dell’albero diventa una mela, e l’equivoco è tanto radicato che qualsiasi cristiano comune è fortemente convinto che la Bibbia parli esplicitamente di questo nordico pomo.

Tuttavia le cose sono ancora più complicate, visto che la Genesi nomina ben due alberi, l’albero della Vita e l’albero della Conoscenza del bene e del male (anche se alcuni vi hanno visto due aspetti di uno stesso albero). La “mela”, il “frutto proibito” mangiato da Eva sarebbe il frutto del secondo albero e l’effetto del peccato è “l’apertura degli occhi”, ovvero la discesa nel mondo materiale, della veglia e “furono coscienti della loro nudità e se ne vergognarono”, ovvero la perdita dell’innocenza, della beatitudine derivata dal non essere scissi dall’essere, dallo scorrere della vita.

Successo questo Dio caccia la prima coppia dall’Eden e vi mette a guardia i cherubini con le spade fiammeggianti “per preservare la strada dell’Albero della Vita”. Tuttavia al momento ci concentreremo sui frutti degli alberi, o meglio sul frutto perché, come vedremo in seguito, c’è motivo di pensare ai due frutti (della Vita e della Conoscenza del bene e del male) come due aspetti di uno stesso frutto, similmente a come accade per gli alberi. Abbiamo visto come il testo biblico nomini solo un “frutto” in modo generico, senza specificarne la specie (forse proprio per sottolineare come si tratti di una metafora e di non focalizzarsi su questo aspetto). Tuttavia gli uomini sono curiosi, in particolare per quello che riguarda i particolari di poco conto, marginali, sui quali possono riversare le proprie particolari idee fisse. Nacquero così diverse opinioni riguardo la specie di questo frutto tanto importante; come abbiamo visto in occidente predominò l’idea che si trattasse di una mela, come d’altronde attestava la traduzione latina. Tuttavia non si tratta di un dominio assoluto: sulla Cappella Sistina, tanto per fare un esempio, Michelangelo raffigurò Adamo ed Eva ai piedi di un albero di fico e di conseguenza proprio il fico doveva essere ritenuto il frutto del peccato originale.

Presso l’ambiente ebraico e quello islamico, entrambi legati alla tradizione biblica, furono proposte varie letture: dalla melagrana (la cui abbondanza di chicchi è segno di fertilità e per i sufi di unità nel molteplice), alla carruba (in ebraico significa anche “distruzione”), all’uva, alla spiga di grano. Infine, e si tratta in effetti di un’associazione logica, con il fico. Infatti, sia nella Bibbia che nel Corano, appena mangiato il frutto Adamo ed Eva per la prima volta si sentono nudi e si vergognano della loro nudità: subito si coprono quindi di foglie di fico. Ma dove le hanno prese queste foglie di fico se non dall’albero stesso che era lì di fronte a loro?

Ora ci concentreremo quindi ad analizzare il simbolismo della mela e quello del fico. Cominciamo dalla mela. Secondo un mito greco arcaico fu Gea, la Madre Terra, a offrire la mela ad Era (la regina degli dei) come dono nuziale, simbolo di fecondità. Il re degli dei Zeus possedeva un suo albero personale che fruttificava mele d’oro, localizzato in un giardino incantato (assai simile all’Eden) localizzato all’estremo Ovest e presidiata dalle Esperidi. Una delle dodici fatiche dell’eroe Eracle fu proprio di eludere la sorveglianza di queste vergini soprannaturali per sottrarre queste mele dorate. Inoltre fu proprio una mela (ed ancora oggi si parla del “pomo della discordia”) a scatenare la guerra di Troia: questa mela, infatti, portava incisa la scritta “alla più bella” e fu consegnata al bel pastore Paride affinché scegliesse a chi darla tra Minerva (intelligenza), Afrodite (passione) ed Era (affetto coniugale). Paride scelse Afrodite, la passione, e così gli fu possibile conquistare la più bella donna del tempo, Elena, la cui fuga innescherà il meccanismo della guerra (insieme alla rabbia delle altre due dee escluse dal dono).

Sempre sulla scia di questo significato negativo la troviamo in molte favole, ad esempio in quella arcinota di Biancaneve, la mela avvelenata offertale dalla strega cattiva che la rende preda di una specie di catalessi da cui solo l’amore del principe potrà risvegliare. Quindi abbiamo un aspetto di fertilità, collegato in particolare al simbolismo sessuale (una mela divisa verticalmente mostra una stilizzazione efficace del sesso femminile), che si ritrova universalmente, dalla Cina alla cultura celtica (Avalon è letteralmente “la terra delle mele” e sotto un melo si dice amasse sostare mago Merlino).

Dall’altro lato però si delinea chiaramente anche un aspetto nefasto, di discordia e distruzione, della passione irrefrenabile che “brucia e consuma” tutto. Un aspetto che in realtà è proprio del simbolismo  di Venere (Afrodite è il nome greco). Presso i sumeri ad esempio la dea Inanna, che rappresenta Venere, possiede entrambi questi aspetti, essendo tanto dea della guerra quanto dell’amore e della fertilità. Lo stesso simbolismo vale per tutte le rappresentazioni che si rifanno al pianeta, tanto che lo ritroviamo anche nell’America centrale precolombiana; ciò è dovuto da una causa astronomica, cioè  dal fatto che Venere si mostri, in periodi diversi o come astro della sera (ovvero sorga al tramonto) oppure come astro del mattino (ovvero presso l’alba). Ecco che mostra due “facce” completamente opposte, ed infatti spesso la divinità rappresentante questo pianeta viene “sdoppiata” per esprimere i due diversi concetti. Ma su questo aspetto torneremo in seguito. Ora basti notare come la mela ha un simbolismo particolarmente legato alla fertilità da una parte e dall’altra un altrettanto marcato significato legato alla discordia ed alla distruzione.

Passiamo ora al fico. Come la mela, anche il fico è fortemente legato ad un simbolismo di fertilità, sia per la sua forma che per il fatto di contenere tanti piccoli semini (come il melograno che nell’area mediterranea ne contende il ruolo e che gli agricoltori del nord Africa spaccavano sull’aratro per garantire la fertilità dei campi. Tuttavia, a differenza della mela, il fico ha un aspetto che lo lega particolarmente alla “conoscenza delle cose nascoste”, alla scienza: si tratta del fatto che in realtà il fico che si mangia non è il frutto ma il fiore della pianta! I veri frutti (che si sviluppano all’interno dell’inflorescenza) sono dei piccoli acheni, i semi futuri. Risulta quindi naturale collegarlo ad una conoscenza “profonda” ed “interiore”.  

In molte tradizioni il fico funge pertanto da simbolo dell’iniziazione ai misteri divini. Per i faraoni il fico donava ai morti la vita eterna. In India il Ficus bengalensis ed il Ficus religiosa sono ritenuti gli alberi sacri rispettivamente di Visnu e Shiva, e proprio sotto un albero si fico Buddha raggiunse infine il risveglio. In molte tradizione (ed in particolare sempre in India) sulle sue radici si acciambella il serpente rappresentante la potenza ctonia, sotterranea: simbolo che esprime la forza fecondatrice per eccellenza (e la stessa energia-coscienza dell’essere umano- kundalini- non è forse rappresentata come un serpente che si attorciglia attorno alla colonna vertebrale –albero cosmico- a mò di caduceo?). “Tale potere - sottolinea Jacques Brosse - viene al fico principalmente dal suo lattice, considerato della stessa essenza di rasa, l'energia universale in forma liquida, e di ojas, il succo vitale che comunica la vita al feto umano nella matrice”.

Nella mitologia egizia, ci riferiamo al sicomoro (Ficus sycomorus); in Egitto si narra che la rinascita di Osiride avviene quando le zolle alla base del sicomoro sacro cominciavano a coprirsi di germogli di grano ed orzo. Il fico sicomoro era insomma considerato un albero cosmico, simbolo di immortalità, di rinascita dalla distruzione. Il suo succo, inoltre, era prezioso perché si riteneva donasse poteri occulti (si tratta di un vino inebriante ricavato dalla fermentazione della linfa della pianta) e il suo legno era usato per la fabbricazione dei sarcofagi: seppellire un morto in una cassa di sicomoro significava reintrodurre la persona nel grembo della dea madre dell'albero, facilitando così il viaggio nell'aldilà. Nel Libro dei Morti, il sicomoro è l'albero che sta fuori dalla porta del Cielo, da cui ogni giorno sorge il dio sole Ra. Esso inoltre era consacrato alla dea Hathor, chiamata anche la “dea del sicomoro”: Dea madre, feconda e nutrice, Hathor abita gli alberi ed è la “signora del sicomoro del sud”, a Menfi; ma è anche la “signora dell'Occidente”, ossia la signora del regno dei morti.

In Grecia, il fico era sacro a Dioniso, dio dell’ebbrezza e del risveglio e a Priapo, il dio itifallico della fecondità, protettore dei giardini. Era legato anche particolarmente alla conoscenza ed ai filosofi: si riteneva infatti che stimolasse la conoscenza e l’eloquenza, era quindi ritenuto particolarmente adatto alla cura della balbuzie, agli oratori e cibo frugale stimolante la conoscenza. Ancora oggi l’italiano conserva la parola “sicofante” che significa “delatore”, la quale deriva dal vocabolo greco “sikon” ovvero “fico”: il delatore non è forse chi conosce “cose segrete”? E che fa le sue deduzioni?

A Roma si narra che gli eroi fondatori Romolo e Remo furono allattati da una lupa proprio sotto un fico: tale albero di fico selvatico si ergeva alle pendici del colle Palatino, nei pressi della grotta chiamata Lupercale, mentre nell'iconografia è spesso rappresentato con un picchio appollaiato sui suoi rami. Fu chiamato “fico ruminale” da “ruma” ovvero “mammella”. Ed alla dea Rumina ed a Jupiter Ruminalis (o Romularis) i pastori rendevano omaggio versando offerte di latte ai fichi selvatici (a difesa dell’abbondanza di latte da poppare per uomini e bestiame).

Nel mondo islamico il fico è ritenuto dotato di una certa baraka (letteralmente “benedizione”, intesa nel senso di “potenza spirituale”). Esso infatti si conserva assai bene secco senza bisogno di alcuna aggiunta di sale o spezie. Il fico non manca mai nei rituali di nozze berberi e campagnoli ed il suo significato sessuale è reso evidente dal fatto che il suo nome significa anche “testicoli”, motivo per il quale per indicare il fico si usa di solito la parola “autunno”, stagione nella quale essi vengono raccolti. La novantacinquesima Sura del Corano viene chiamata “Il fico” (At-Tîn) inizia evocando il fico e l’olivo: “Per il fico e l’olivo/ per il monte Sinai/ e per questa contrada sicura!/ Invero creammo l’uomo nella forma migliore,/ quindi lo riducemmo all’infimo dell’abiezione/ eccezion fatta per coloro che credono e fanno il bene: avranno ricompensa inesauribile./ Dopo di ciò cosa mai ti farà tacciare di menzogna il Giudizio?/ Non è forse Allah il più Saggio dei giudici?”.

Ecco un richiamo alla fecondità (creazione dell’uomo e nutrimento richiamati dall’oliva e dal fico) ed ad una “caduta”; tuttavia vale la pena ricordare che per l’Islam dopo il peccato Adamo ed Eva si sottomettono al valore di Dio. In altre parole non c’è la superbia che ritroviamo nel Vecchio Testamento, dove la coppia, dopo aver “aperto gli occhi” e piena di vergogna per la nudità di cui ha appena preso coscienza sembra sfidare apertamente il Creatore, lasciando intendere che grazie alla nuova conoscenza acquisita potevano porsi contro di lui o addirittura fare a meno di lui.

Tornando al nostro fico: abbiamo quindi, come per la mela tutto il filone dell’abbondanza e della fertilità, unito però ad una valenza più marcata dell’aspetto di conoscenza (che pure era presente anche nella mela). Ma vi è anche un aspetto “oscuro” del fico. Presso i Greci esso indicava infatti anche un tumore, un'escrescenza carnosa, e per Ippocrate il termine “sikon” indicava l'orzaiolo. Fin qui abbiamo un richiamo alla forma esteriore che però accenna già a qualcosa di inutile, “di troppo”: non è forse l’escrescenza, il tumore un “sovrappiù” di carne, una crescita sproporzionata, troppo abbondante?

Esiste una parabola, nel vangelo di Matteo, che narra come il Cristo, avvicinatosi ad un albero di fico per raccogliere dei frutti non ve ne trova, essendo Marzo, quindi ben fuori stagione; egli dunque lo maledice ed il giorno dopo l’albero è trovato seccato. A tutta prima sembra un’azione del tutto irrazionale, insensata: seccare un albero perché non da frutti fuori stagione? Eppure gli apostoli evidentemente capirono, come capirono coloro i quali ascoltavano questa parabola trovandovi un senso. Allora bisogna presumere che i contemporanei avessero una tacita nozione, nel loro substrato culturale, che rendeva comprensibile questa azione a tutta prima insensata. Questa nozione la possiamo trovare se riconosciamo nell’albero della Conoscenza del bene e del male un fico e ci colleghiamo alle valenze negative legate a questa conoscenza a cui il termine stesso in greco ci riportava: tumore, crescita sproporzionata, troppo abbondante, eccessiva.

Vale la pena collegarsi ad un proverbio popolare: “Cercare i fiori di fico”, come a dire una cosa inutile, la ricerca di una conoscenza impossibile e necessariamente infruttuosa, proprio come il fico che Gesù maledice. Viene in mente la rappresentazione che Aristofane fa dei sofisti, gli intellettuali e scienziati del suo tempo nella sua commedia Le nuvole: persone tutte dedite a curiosità minute e senza capo né coda, come contare i passi di una mosca o guardare le stelle da ceste volanti mentre venerano a parole queste “vaghe” divinità, le Nuvole appunto.

Ecco dunque che la parabola mostra il suo significato ed insieme chiarisce il simbolismo preciso dell’albero della Conoscenza del bene e del male; al disseccamento del fico, infatti, segue un discorso del Cristo tutto incentrato sull’abbandono delle conoscenze e delle curiosità futili, e dell’affidarsi piuttosto al destino ed i significati che di volta in volta ci rivela individualmente. La Conoscenza del bene e del male sarebbe quindi questo: la scienza come qualcosa di ipertrofico, che vuole conoscere troppo (anche quello che non si può conoscere, come il valore completo di pi greco o il voler trovare i fichi a Marzo). È questo tipo di conoscenza duale (e tutte le nevrosi e le psicosi nascono dal conflitto duale tra conscio ed inconscio, come tutte le guerre da quello tra io e altro e tutte le distruzioni e le dolorose separazioni da quello tra io e mondo, scissione originaria simboleggiata dal peccato originale) che il Cristo mostra come conoscenza del bene e del male. E per mettere in guardia contro di essa utilizza proprio il simbolo del fico.

 

Mangiare astri

 

Abbiamo già visto il legame tra il doppio simbolismo dei due frutti (mela, fico) ed il doppio simbolismo della divinità rappresentante il pianeta a cui si riferiscono, ovvero Venere. Tagliando una mela orizzontalmente, si ricava infatti la forma di una stella a cinque punte, emblema della scuola pitagorica e della sua conoscenza, come anche della sezione aurea, segreto della bellezza, ed infine delle 5 fasi di Venere, che dopo otto anni disegna proprio una stella simile nel cielo. Tuttavia anche il fico ha un simile legame, sia per la forma che lo associa costantemente al sesso femminile (e quindi alla fecondità, abbondanza ecc.), sia per tutti i significati che, abbiamo visto, lo collegano ad una “conoscenza segreta”, proprio come la sezione aurea che si ricava dall’intersezione dei lati di una stella a cinque punte: un segreto geometrico che porta con sé la potenza della bellezza, quindi della passione, del desiderio travolgente che spinge alle infrazioni più esagerate.

Per comprendere meglio questa opposizione che può essere unificata nella stessa divinità o sdoppiarsi in due divinità opposte vale forse la pena soffermarci un secondo su quello che dice l’astronomo Anthony Aveni nel suo Conversando coi pianeti: “La vita ha i suoi alti ed i suoi bassi, le sue relazione di odio ed amore, e tutti sappiamo che per apprezzare il piacere è necessario avere provato il dolore. Forse definiamo le nostre emozioni in modo che riflettano estremi appartenenti ad uno spettro continuo, oppure le consideriamo poli opposti: sofferenza e gioia, depressione ed esaltazione? Noi elaboriamo sistemi per misurare tutte le possibilità dei sentimenti che non riusciamo nemmeno immaginare di provare, solitamente con una scala di misurazione che va da meno dieci a più dieci. Noi strutturiamo la natura esattamente come strutturiamo noi stessi. Questo spiega perché la mitologia talvolta descrive i pianeti in coppie (o diadi) mentre talvolta li divide a metà, considerandoli letteralmente come due entità separabili, opposte e tuttavia complementari”.

È esattamente ciò che succede col pianeta Venere ed i due aspetti con cui si mostra agli osservatori terrestri. Analizziamo dunque brevemente il simbolismo di questo pianeta nelle varie culture per estrapolarne i valori universali. Per i Sumeri Venere era Inanna (Ishtar presso i Babilonesi) era dea dell’amore e della guerra; discesa negli inferi per salvare il suo sposo rapito nell’abisso, dovrà attraversare sette porte e ad ogni porta togliersi un vestito sino a rimanere nuda (discesa di Venere nell’orizzonte durante la quale appare sempre meno lucente; il numero sette si riferisce ai pianeti conosciuti). Dea della sera, favoriva l’amore e la voluttà; dea del mattino, presiedeva alle operazioni di guerra e alle stragi. Era figlia della Luna e sorella del Sole, associata nei sigilli assiri al leone ed alla prostituzione sacra.

Il pianeta Venere era estremamente importante presso le antiche civiltà del Centro America e segnatamente presso i Maya e gli Aztechi, sia per l’organizzazione del calendario (che connetteva cicli solari, lunari e venusiani- tramite l’equivalenza 5 fasi venusiane ≈ 8 anni solari), sia per la cosmogonia. Presso i Maya Quiché Venere rappresentava Quetzalcóatl, un dio-eroe dalle cinque facce o aspetti (come le 5 diverse fasi del pianeta) chiamato anche Serpente piumato. È un gemello del Sole e anche lui si reca negli inferi insieme al fratello per sconfiggere i signori della malattia; uccide il fratello gli apre il petto ed estrae il cuore. Poi rimette tutto a posto e lo resuscita; i signori della malattia vogliono che sia fatto anche a loro, così Quetzalcóatl li accontenta, senza però resuscitarli. Oltre a debellare le malattie è sempre lui a donare il fuoco agli uomini (in cambio del quale richiede sacrifici di sangue e cruenta estrazione del cuore) ed inoltre compie 5 viaggi fino al mitico paese di Xibalba dove pianterà il seme stesso della creazione.

In Cina invece troviamo che Venere rimane divisa in astro del mattino (Nu Chien) femminile ed astro della sera (Tai-Po), astro della sera maschio; i due sono visti come mattino e sera. Anche se nella tradizione cinese, attenta in modo particolare ai pronostici burocratici dell’impero, è preponderante il significato di guerra, piuttosto che quello di fecondità: Venere è infatti definito “il grande bianco” e nel suo candore si vede il brillare del metallo, di come di una lucida spada.

Gli esempi in realtà si potrebbero moltiplicare enormemente, senza che cambi il succo: Venere possiede due aspetti principali (stella del mattino che sorge ad est all’alba; stella della sera che sorge ad ovest al tramonto). Questi aspetti possono essere sintetizzati da un’unica figura (Venere-passione che può essere tanto prolifica quanto distruttrice) o sdoppiarsi in due divinità (Venere-guerra, Venere-amore), una di sesso maschile ed una di sesso femminile. Ed i due aspetti spesso e volentieri convivono, come convive il nostro considerare le emozioni come uno spettro continuo (ad esempio da 1 depressione a 10 euforia) oppure come coppie di opposti scissi ( gioia e dolore come emozioni distinte ed opposte).

Per tirare le fila del discorso ci rifaremo alla mitologia greco-romana, per evidenziare cosa è successo a seguito del medioevo al simbolismo dei due aspetti di Venere. Per i Greci Venere è la dea dell’amore e della fecondità. Tuttavia esistono anche due aspetti distinti: la stella del mattino è Phosphoros, stella di Afrodite che sorse dalla schiuma del mare dal membro castrato del padre Crono. Invece, come stella della sera si chiama Espero, divinità maschile e fratello di Atlante, che in latino diventa Vespero in quanto prolunga la luce diurna. Dalla prima divinità derivano alcuni termini come fosforescente e fosforico, che connotano un brillamento improvviso e danno nome all’elemento Fosforo, detentore di questa proprietà.  In latino, però, lo stesso nome (“portatore di luce”) diventa Lucifero.

Avvenne così che a partire dalla tarda antichità e dal medioevo l’aspetto di astro del mattino di Venere venne a confondersi col signore del male, il “principe delle tenebre”. La relazione finì infatti per mettere in risalto l’opposizione tra la venere mattutina ed il sole, quindi tra la Luce e le Tenebre. Venere mattutina non pecca infatti di superbia volendo portare luce prima del Sole (immagine della luce di Dio)? Si identifica quindi benissimo con Lucifero, splendente tra gli angeli, che per superbia volle brillare più di Dio, ribellarsi a lui. Risulta quindi che Phosphoros o Lucifero (donna nella religione classica) divenne il male, la superbia di “brillare da soli” contro il vero luminare, mentre Vespero (uomo) venne a prendere, in sordina il valore di amore e fecondità che nella nuova religione cristiana rimaneva in sordina. Ecco quindi delineato il mutamento avvenuto nell’immagine di Venere e di conseguenza dei frutti simbolicamente ad essa collegati. L’aspetto di “stella del mattino” a contatto con la nuova religione (e nuova visione del mondo) diventa simbolo del male, del peccato e della corruzione; si tratta di una posizione nota del cristianesimo secolare l’enfasi sul peccato (il peccato principe è sempre quello sessuale) collegato alla tentazione ed alla donna.

Il simbolismo della mela viene quindi ad assumere proprio questo simbolismo collegato alla stella del mattino, a Lucifero. Nasce il concetto di peccato, ovvero di una colpa collegata in modo particolare al sesso (un esclusiva della società occidentale e del cristianesimo). Questo lo si può verificare mediante il paragone col simbolismo del fico: esso rimane un simbolo di fertilità e sessualità benefiche ed il suo aspetto di “desiderio illimitato di conoscenze e poteri futili” diventa un aspetto che va superato (ci si ricordi come Buddha ottiene l’illuminazione proprio sotto un fico).

Ecco quindi in sintesi come questi due frutti, la mela ed il fico, conservando i loro attributi dovuti ai due aspetti di Venere, subiscono un destino simbolico assai diverso e pieno di conseguenze. In occidente, infatti, l’aspetto mattiniero si collega al peccato, al sesso, alla tentazione ed alla donna, in una parola a Lucifero, Venere mattutina. L’aspetto legato all’amore e la fecondità viene filtrato attraverso questo simbolo e diventa quindi esso stesso male, malvagio, da rifiutare. Ma il testo biblico, come vedremo, ha idee ben diverse sulla natura di questo male, il male; esso non è infatti la sessualità, né la superbia di per se stessa. Si tratta invece della “conoscenza del bene e del male”, la divisione originaria che porta l’uomo a scindere all’infinito il mondo in giusto e sbagliato, vero e falso, ricercando il potere e la conoscenza oltre i propri limiti, limiti che costituiscono il suo stesso essere, quello in virtù del quale può dire “io sono”. Questo non accade al fico, simbolo a cui sono rimasti fedeli i popoli non cristiani, il quale non subisce questa conversione maligna verso la nuova visione di Venere e quindi l’invenzione del concetto di peccato. Esso rimane infatti simbolo tanto di energia vitale grezza (che si esprime soprattutto con la sessualità e la fecondità), sia simbolo di una “conoscenza segreta” che può essere tanto positiva (stato di coscienza conquistato grazie al lavoro su se stessi) sia negativa (conoscenza inutile, solo intellettuale volta alla sola volontà di potenza).

 

Mangiare o non Mangiare?

 

Per capire le conseguenze del definire il frutto proibito come una mela piuttosto che un fico occorre che ora ci soffermiamo ancora un attimo a definire meglio in cosa consiste la colpa, il “peccato” compiuto in illo tempore dai progenitori dell’umanità. Innanzi tutto vale la pena soffermarsi un secondo sul simbolismo dell’albero. In tutte le tradizione l’albero è uno dei simboli chiave (insieme alla montagna) dell’axis mundi, ovvero del “pilastro centrale” che collega Cielo e Terra. Si tratta di quell’asse che dal punto di vista fisico passa per i poli terrestri e dal punto di vista simbolico attraversa tutto il centro dell’universo. Si tratta di un simbolismo universale che ritroviamo in tutte le culture (rimandiamo per un’analisi più approfondita ai lavori di Mircea Eliade), è il cammino di mezzo, l’asse immobile attorno a cui ruotano le galassie ed il tempo. Tuttavia nella Genesi sembrano esserci due alberi, dotati di rispettivi frutti: l’albero della Vita e l’albero della Conoscenza del bene e del male. Vale qui ciò che abbiamo detto riguardo a Venere ed ai simboli della mela e del fico: in altri termini si tratta dello “sdoppiamento” dei due aspetti dello stesso asse centrale o Albero universale.

Secondo una tradizione cinese l'albero Chien-mu (Legno diritto, identificato con lo gnomone) è al centro del mondo e lungo di esso ascendono i sovrani per accordare fra loro Cielo e Terra; nell'antico Egitto l'Albero sacro per eccellenza è il sicomoro, “sui cui rami abitano gli dèi”, ma l’Albero cosmico era anche simboleggiato dal Djed, la colonna sacra munita di quattro capitelli, ritenuta a sua volta simbolo della colonna vertebrale (in particolare quella di Osiride, il “rinato”). In America l'immagine dell'Albero cosmico ritorna nell'uso sioux di piantare un albero al centro dello spazio riservato alla danza del Sole, oppure, nella civiltà azteca, come emblema del Quetzalcóatl, il “Serpente piumato” che abbiamo già incontrato sopra. Nell'Eurasia il simbolo dell'Albero cosmico riaffora nella betulla, sacra allo sciamanesimo siberiano, nell'Asvattha, l'"albero capovolto" degli antichi Indiani (simbolo della manifestazione che ha le sue radici nell’immanifesto), nel frassino Yggdrasill  (un frassino) sacro ad Odino presso gli antichi Germani.  In India abbiamo il Soma, pianta da cui si estrae un succo inebriante che mette in contatto con la divinità, in Persia l’Haoma, pianta sacra dotata della stessa proprietà.

Tuttavia l’aspetto duale di questo albero (che è origine con la sua rivoluzione sia del giorno che della notte, ovvero sia del bene che del male) è già ben evidente in un’immagine delle Upanishad in cui tuttavia si parla di un unico albero. Su questo Albero, dice il testo, stanno due uccelli: il primo mangia un frutto, il secondo, distaccato osserva. Il significato è chiaro: il primo rappresenta l’azione, l’essere “dentro il mondo” (quindi “mangiare”), l’altro rappresenta la contemplazione, il distacco dal mondo (che non implica il non agire quanto, secondo l’espressione upanishadica il non essere attaccato ai frutti dell’azione).  In questa metafora i due aspetti sono rappresentati dallo stesso Albero, dallo stesso frutto: la differenza è data da chi mangia (quindi è irretito da paura, attaccamento ecc.) e chi invece non mangia (ovvero si tiene estraneo da desiderio, paura di perdita ed attaccamento generati dagli oggetti su cui si agisce e si è di conseguenza agiti).

Un simbolismo simile si trova nel più antico poema epico dell’umanità pervenutoci, ovvero la storia dell’eroe sumero Gilgamesh. Riassumendo al massimo Gilgamesh è il re della città di Ur e vuole compiere grandi imprese, ma, scosso dalla morte dell’amico Enkidu, è angosciato dall’idea della morte ed arriva alla conclusione che l’unica vera impresa, la più grande e degna è quella di conquistare l’immortalità. Dopo molte peripezie riesce quindi a farsi svelare l’esistenza di un “frutto” (in realtà qui si tratta di un’alga acquatica) in grado di dare l’eterna giovinezza; il segreto gli è svelato da Utnapistim, il sopravvissuto al diluvio universale che vive per volontà degli dei in un giardino “oltre le acque della morte”, immortale. Tuttavia mentre risale dalle acque un serpente gli ruba la preziosa pianta, lasciando l’eroe con un pugno di mosche. Tuttavia il finale non è tragico: anzi sembra che proprio ora che Gilgamesh torna a casa rassegnato, riappacificato coi propri limiti, abbia raggiunto la vera felicità che in tutta questo rincorrere il “sempre di più” (imprese sempre più grandi, dalla costruzione delle mura della città, al taglio dei cedri custoditi dal mostro, alla lotta col “Toro celeste” fino alla ricerca dell’immortalità, l’impresa suprema). L’accettare il limite, il destino, sembra essere il lieto fine, il punto di arrivo della pienezza e della felicità dell’eroe.

Similmente per un’altra storia mesopotamica: la storia del re Etana. Etana è un uomo pio e tuttavia ha quello che per i tempi era un enorme problema: non riesce ad avere figli, il che nella mentalità sumerica era come morire del tutto, essere dimenticati, visto che era nel “nome”, nella discendenza, che un uomo si realizzava completamente e diventava immortale. Per risolvere questo problema va alla ricerca di una “pianta della fecondità”; dove si trova tale pianta però lo sa solo un’aquila. Questa aquila vive in un albero “in comunità” con un serpente che ne abita le radici (ecco qui il tema insolito che ritroviamo nella frase del Vangelo di Matteo: “siate candidi come colombe ma astuti come serpenti”, dove però l’innocenza si mischia al “distacco dominatore” dell’aquila, tema ripreso anche da Nietzsche in Cosi parlò Zarathustra). Ad ogni modo la convivenza pacifica ha fine: l’aquila per paura che il serpente mangi per primo la pianta della fecondità e si avvantaggi, la mangia prima lei e stermina i serpentelli; per vendicarsi il serpente chiede aiuto al dio Shamash, dio del Sole e della giustizia, di fronte al quale i due avevano giurato di aiutarsi e non aggredirsi. Ottiene così aiuto, si nasconde in una carcassa di animale e quando l’aquila lo artiglia la aggredisce e la lascia morente in un fosso. In queste condizioni la ritrova Etana, che accetta di aiutarla a patto che lei lo conduca a prendere questa famosa pianta di cui ha bisogno. La cosa curiosa è che questa pianta non si trova sulla terra, ma in cielo, in uno dei cieli di cristallo e pietre preziose che secondo la cosmologia mesopotamica avvolgono il mondo; per la precisione il settimo cielo, quello di Venere. Come fa notare Claudio Saporetti nel suo Saggi su Gilgamesh, il mondo mesopotamico è ricco di questi frutti-gemme che splendono di luce propria; i pianeti stessi si abbeverano alla luce pulsante di queste gemme vive e da esse prendono il loro splendore mentre che sorgono passando dai giardini minerali e lucenti del cielo. Ad ogni modo, sarà per la stanchezza dell’aquila non ancora ripresasi dalle ferite, sarà per il peso o la fretta di Etana, fatto sta che la salita non riesce ed a un certo punto l’aquila non ce la fa più e cade al suolo insieme al suo improvvisato cavaliere. La cosa che appare curiosa dal nostro punto di vista è che anche qui gli dei, invece di arrabbiarsi con Etana per il suo tentativo “oltre i limiti” e quindi sacrilego, premiano il fatto che si sia rassegnato, che abbia infine accettato il proprio destino. Almeno così pare dal seguito delle tavolette: sembra infatti che Etana abbia poi avuto la discendenza che tanto bramava; proprio nel momento in cui si era rassegnato al destino di non averne!

Non è difficile vedere in questi esempi il concetto greco di hybris, ovvero di un’azione che va oltre i limiti umani e pertanto viene punita dagli dei: una concezione resa assai famosa dai tragediografi dell’età classica. Questi esempi ci spingono però a pensare più in profondità tale concetto: qui infatti il tentativo “eccessivo” è punito con la semplice frustrazione e non in quanto “offesa personale agli dei” come viene di solito interpretato in modo semplicistico. Infatti, se la frustrazione porta infine a comprendere l’inutilità di questo sforzo e quindi all’accettazione del destino, la punizione cessa automaticamente. In altre parole si vede che la “punizione” che consiste nella frustrazione dei tentativi sembra più che altro un “correttivo” per portare alla comprensione ed all’accettazione dei propri limiti intrinseci, piuttosto che una ritorsione contro un “sacrilegio”.

Abbiamo introdotto il racconto di Etana soprattutto per mostrare come questo racconto sopravviva poi nelle gesta di Alessandro Magno la cui leggenda era assai popolare sino all’età moderna. Nel caso del condottiero greco, però, il “frutto” è quello dell’immortalità ed il volatile è un grifone che Alessandro convince a volare tenendo in mano due lance su cui sono infilzate delle bistecche. Anche in questo caso l’impresa fallisce ma né gli dei, né il Dio cristiano puniscono la sua hybris, ma anzi sembra che anche in questo caso la rassegnazione e l’abbandono all’ordine dell’universo vengano premiati da benevolenza. Tra le righe, per segnalare quanto le ramificazioni dei miti giungano persistenti e vitali dagli abissi del tempo per plasmare la realtà, segnaliamo questo stesso concetto nella figura di Alessandro cavalcante il grifone con le esche in mano la si può ammirare incisa sul frontone medioevale del duomo di Cremona.

Vale la pena infine di segnalare come questo abbandono ai comandi del destino è anche la virtù precipua di Enea, l’eroe di Virgilio, che la definisce pietas, ovvero l’accettazione dell’ordine delle cose, del volere degli dei. In questa luce appare anche comprensibile in cosa sia lodevole l’azione dei patriarchi biblici che non brillano certo di moralità, né umanità o buone azioni, ma rispondono con assoluta docilità ai comandi del destino. Il mangiare il frutto è quindi simbolo di questa hybris, di questo voler infrangere i limiti del proprio essere, voler potere, godere, sapere di più di ciò che è adatto a ciò che si è.

Tornando al nostro albero, risulta quindi chiaro che la Genesi esprime questo simbolismo sdoppiando gli alberi ed i frutti: da una parte abbiamo il frutto della Vita che rappresenta l’essere, l’accettazione e l’unità (rappresentata dallo stesso pilastro centrale o Albero cosmico); dall’altea abbiamo il frutto della Conoscenza del bene e del male, che rappresenta la volontà di potenza che tende al dominio illimitato, ma che è sempre frustrata perché la scissione sta a monte. Il termine conoscenza si riferisce infatti proprio a questo (in tedesco giudizio di dice Urteil, “taglio originario”); si tratta di una scissione tra io e mondo, tra conscio ed inconscio, tra io e Altro che è del tutto incolmabile. Si tenta di colmare questa mancanza, questo vuoto esistenziale cercando di possedere l’Altro, quindi si cerca di sapere sempre di più, diventare sempre più potenti, più forti, più ricchi, migliori moralmente ecc. Tutto inutile perché il vero abisso è alle spalle, all’origine. La Genesi pone una netta separazione: da una parte troviamo la conoscenza intellettuale e sterile. Si tratta della conoscenza che classifica, ovvero divide (il nucleo di tutte le opposizioni è quella in bene e male), ma anche quella che mediante tale classificazione vuole agire sul mondo con la tecnica. Infatti per creare ad esempio un veicolo più veloce occorre classificare i veicoli, i motori ecc., ma soprattutto presupporre che sia bene avere un veicolo che va più veloce! Ecco quindi riproposta la scissione originaria di bene e male: risulta pertanto chiaro che la conoscenza tecnica è anch’essa null’altro che una branca della morale. Di conseguenza una conoscenza che classifica, ovvero scinde, divide (in greco dia ballo, da cui il temine “Diavolo”, letteralmente “colui che divide”).

Dall’altra parte abbiamo l’albero della Vita. Il suo simbolismo è ovvio, spontaneità, energia vitale, armonia con l’ambiente naturale ecc. Tuttavia vale la pena notare che esso contiene a sua volta un certo tipo di conoscenza (nel mondo ebraico studio e culto si identificano e non è pertanto immaginabile una condanna tout court della conoscenza). Di che tipo di conoscenza si potrà quindi trattare? Già, perché moltissimi identificano la conoscenza stessa, tutta la conoscenza, con il semplice classificare, memorizzare e giudicare. Vi è tuttavia un genere di conoscenza che trascende tutto questo ed è quella che la Genesi indica come Vita. In questo saggio ne abbiamo dato qualche accenno introducendo al simbolo, alla sua natura ed al suo funzionamento. Se la conoscenza malvagia, quella che ha portato alla “caduta” è la conoscenza che divide, è chiaro che la conoscenza della Vita sarà quella che unisce. Che non si può più nemmeno dire che è conoscenza, dal momento che conoscere implica la separazione di soggetto ed oggetto, mentre qui le due cose si fondono, diventano un’unica esperienza, un unico essere. Per questo la Genesi la chiama Vita e la oppone alla Conoscenza del bene e del male. I simboli possono aiutare a comprendere: un simbolo interiorizzato, insegna la psicologia, può cambiare una persona, dissolvere complessi (o viceversa crearne altri quando usato per il dominio, come nel caso dei “loghi” pubblicitari). Ecco quindi una conoscenza che agisce, che porta ad un essere e supera quindi la sua stessa natura di conoscenza; il contenuto intellettuale è messo tra parentesi e rimane solo il “qui ed ora”, la pura esperienza della vita.

Se già nel racconto della Genesi vi è uno “sdoppiamento” dei frutti e quindi una scissione tra aspetti positivi e negativi, con la trasformazione del frutto in mela questo concetto della Conoscenza del bene e del male subisce una metamorfosi, arrivando ad indicare qualcosa di diverso. È ora la passione, e segnatamente il desiderio sessuale (ma non solo) ad incarnare la passione inesauribile, insaziabile; il sesso sembra infatti  non essere più qualcosa che lasci soddisfatti, sazi dell’atto compiuto, ma qualcosa di cui “se ne vuole sempre di più”, una fame senza fondo. Ma se prima sembrava naturale che una passione (prendiamo una passione amorosa) che spinge al superamento dei limiti usuali (ad esempio può rendere possibili atti che un timido non compirebbe mai altrimenti!) tuttavia, nel suo divenire giunge ad un appagamento e così si esaurisce. Ed in questo esaurimento, in questo abbandono al destino sembra esserci la vera pace (nirvana in sanscrito significa semplicemente “espirazione”, il sospiro liberatorio di resa).

Si tratta di una percezione del “principio del piacere” leopardiano: l’uomo insegue senza fine mille piaceri diversi (ma qui l’accento è posto sul desiderio del piacere, ovvero su quello che implica una conquista, uno sforzo al di fuori della norma). Tuttavia ogni piacere è transitorio. In altre parole, si è sazi, ci si abitua e ci si annoia. Non si trova appagamento e la rincorsa continua così all’infinito, senza che la felicità sia mai sfiorata per più di un secondo per sfuggire al primo giro di ruota. Come si vede qui non c’è nessuna presa di coscienza; l’uomo non si accorge mai di essere preda di una fuga continua da se stesso, da quell’unità che potrebbe dargli appagamento. Inoltre non si tratta più di un impulso in certa misura normale, ma diventa un vero e proprio peccato, qualcosa di sacrilego. Per questo Dio punisce chi vi si azzarda (e la società si incarica di reprimerlo, qualora non ci pensasse Dio).

Per constatare la differenza basta paragonare tutte le narrazioni che abbiamo visto sopra con quella che Dante fa del viaggio di Ulisse oltre le Colonne d’Ercole. Ulisse è spinto dalla sua curiosità (quindi da una conoscenza puramente intellettuale) che lo arde come una passione che lo spinge sempre più il là: oltre il limite assegnato agli uomini, che per Dante, come per i popoli classici, è costituito dalle Colonne d’Ercole, limite del Mediterraneo. Ulisse non vaga per le piatte distese dell’Atlantico fino a quando si accorge dell’inutilità delle sue pretese; non ne ha il tempo, perché dio lo punisce prima, appena giunge in vista del monte del Purgatorio. Come si vede, qui non è nemmeno contemplata la possibilità di una presa di coscienza, di un’accettazione consapevole del proprio destino e dei propri limiti. C’è solo una colpa, che è una tendenza all’infinito incallita, incurabile, che è punita da Dio e va repressa dalla società.

Questo il significato del frutto quando diventa mela: fuga verso un infinito negativo, mai raggiungibile, fuga dai propri limiti, da ciò che propriamente costituisce il proprio essere. Una mutazione affatto simile subisce il simbolo del serpente. Presso le società arcaiche era universalmente venerato come simbolo di fecondità, di energia creatrice e rigenerazione, come mostra dalla sua pelle (templi a serpenti c’erano in Egitto, in Grecia, in India e nell’America centrale, tanto per nominare alcuni luoghi). Abbiamo già visto come nella tradizione indiana esso rappresenti kundalini, l’energia vitale che si arrotola sulla colonna vertebrale e rende possibile la coscienza (e quindi anche il suo potenziamento, il risveglio). Anche nei racconti di Gilgamesh e di Etana abbiamo visto che esso si comporta come guardiano ma soprattutto come aiutante, dal momento che è grazie alla sua azione che gli eroi falliscono e si rendono conto di come sia sbagliato desiderare senza sosta.

La tradizione ebraica tende a sua volta a confermare questa lettura: l’azione del serpente, che pure spinge gli uomini alla caduta è benefica, perché li rende coscienti della loro pochezza e li costringe ad iniziare un cammino di auto perfezionamento per tornare presso Dio. D’altronde la Bibbia ci presenta un serpente dalla valenze assai positive: si tratta del serpente di bronzo che Mosè prepara fuori dal deserto. Antenato nella forma dell’insegna delle farmacie, esso ha il potere di guarire tutte le malattie e di allontanare ogni male. Inoltre possiamo trovare sia il Cristo che Satana raffigurati come due serpenti e, secondo il modo di procedere che abbiamo già visto, addirittura le due figure unite nella forma di un’anfesibena, ovvero un serpente a due teste.

Tuttavia anche questo simbolo con la nuova mentalità basso medioevale diventa unilaterale: il serpente non ha più lati buoni, è solo il simbolo della carnalità, del sesso e quindi del male, è Satana e va combattuto e distrutto. Ma col finire del medioevo ed il sorgere dell’epoca moderna ecco che la situazione si capovolge! La mela da strumento del peccato e della dannazione diventa simbolo di una tensione all’infinito, questa volta però giudicata positiva. La mela che cade sulla testa di Newton (lo ricordiamo: si tratta di un mito moderno, una leggenda inventata da Voltaire) indica una nuova epoca in cui la fuga da sé, la tensione perenne e dolorosa verso l’infinito diventano valori positivi e non più negativi. Si elogia una conoscenza sempre in fieri, ovvero che non conosce mai veramente, che rimanda sempre ad un futuro migliore, come i biglietti coi quali i rivoluzionari pagano le merci confiscate: dei pagherò che si rivelano puntualmente carta straccia. La tensione dei nervi, lo sforzo infinito, la lotta contro qualcosa che non si può vincere vengono elogiati e diventano le nuove virtù.

Dopo secoli di repressione questa mela diventa finalmente buona. La gente d’altronde non conosce più il latino (lingua antiquata) e dunque è sorpassato l’antico accostamento con “malum” che infamava questo nobile frutto. Non c’è più alcuna presa di coscienza possibile; l’uomo si sente oramai tanto lontano dalle sue radici, ovvero da quell’appagamento e quella consapevolezza di sé che lo portavano infine ad accettare il “qui ed ora” che non capisce nemmeno le ragioni per cui la fuga da se stessi, la tensione all’infinito vada repressa. Questa corsa eternamente frustrata verso il piacere è oramai incallita e patologica. L’uomo si convince pertanto che essa è naturale, anzi, diciamocela tutta, essa è buona! Non è forse questo il motore del tanto decantato progresso, della marcia inarrestabile verso più conoscenza, più ricchezza, più potenza tecnologica sul mondo ecc.?

Quindi si convince che tutto il male stava nel reprimere questa mirabile spinta; era la repressione di questo tendere il vero male, anzi il male dei mali. Ora l’uomo, finalmente liberato, la mela la mangia  senza più remore. Anzi, è la mela stessa a colpirlo, tanto è passivo di fronte a tale impulso, ma lui si convincerà senza dubbio che va a lui in realtà il merito della cosa: non è infatti Newton ad avere avuto prima la cultura, gli studi ecc. che gli hanno permesso, una volta colpito per caso dalla mela di formulare la legge della gravità? La superbia e l’ipertrofia dell’io fanno senza dubbio parte di questa stessa tendenza che va ricondotta alla mela: sono infatti il contrario dell’accettare l’azione di una forza estranea all’io nel plasmare il mondo (lo si chiami Destino, Dio, Caso, poco importa). Le speranze di una tale accettazione, e quindi di ritrovare l’appagamento, la felicità dovute alla presa di coscienza della propria condizione e quindi dell’accettazione del destino (come il Buddha sotto il fico) sono quindi del tutto scomparse per chi vive sotto il mito della mela buona, della mela “liberata”, che è giusto mangiare.

Giungiamo infine al logo della casa produttrice di computers Apple. Una mela morsicata contenente i colori dell’arcobaleno, non disposti però nell’ordine normale, secondo le leggi di natura, ma in modo invertito, coi colori più caldi al centro, a sottolineare il morso. Evidentemente si vede nel morso alla mela un qualcosa di positivo, si esalta anzi questo atto che ha portato alla scienza; il legame col sesso e la “tentazione” (a cui ovviamente ci si lascia andare come suggerisce il morso) fa scattare i meccanismi di attrazione. L’arcobaleno invertito poi è l’esemplificazione più immediata della volontà di infrangere le leggi di natura, essendo l’ordine dei colori una delle manifestazioni dell’ordine naturale che con maggiore forza manifesta un’armonia che nasce dalle leggi limitanti di cui è intessuto il cosmo. Ci teniamo a precisare che non crediamo che i creatori di tale logo siano stati consapevoli a livello cosciente di questi simbolismi, né gli si può attribuire alcuna responsabilità: si sono limitati ad esprimere quello che inconsciamente è ritenuto il Bene da parte della società occidentale moderna.

 

Conclusioni

 

A quanto pare questa rapida escursione ci ha portato molto lontano. Abbiamo visto come qualcosa ritenuto comunemente senza importanza e trascurabile, come l’identificazione del “frutto proibito” con una mela piuttosto che una pera, una melagrana o un fico. Che un “semplice errore di trascrizione” può causare conseguenze di portata incalcolabile nella vita di miliardi di persone, nel mondo da essi plasmato e nel modo in cui agiscono e provano sensazioni.

L’analisi che abbiamo portato avanti ci ha condotti di necessità a fare un tuffo nell’oceano sterminato e fantastico che è il mondo dei simboli. Speriamo di essere riusciti ad introdurre il lettore “dietro le quinte” degli avvenimenti, a mostrare come sono proprio i simboli, o archetipi a tenere le fila dei pensieri, delle azioni e degli avvenimenti ed aver chiarito i meccanismi attraverso i quali ciò avviene. Non pretendiamo certo di avere esaurito un tale campo, ma semplicemente di avervi accennato e di aver acceso la curiosità del lettore al riguardo: in realtà il modo in cui tendono i fili di questa ragnatela che chiamiamo realtà sono assai più vari e complessi. Ad esempio è curioso come i valori simbolici latenti tornano periodicamente a galla: riguardo all’aspetto negativo della mela, ad esempio, potrebbe sembrare che dopo l’accettazione di ciò che essa rappresenta (con il mito di Newton ad esempio) non si potrà più ritrovare alcun aspetto negativo in questo simbolo. Invece uno degli uomini che più ha incarnato la ricerca e la scienza contemporanee, ovvero Alan Turing, padre dell’informatica moderna, pare fosse ossessionato dal cartone di Biancaneve ed in particolare dalla scena in cui la strega cattiva intinge la mela nel veleno. In seguito alle pressioni del governo britannico dovute alla sua conoscenza di segreti militari di Stato ed alla sua scoperta omosessualità (al tempo reato oltre che giudicata immorale) fu spinto a togliersi la vita e lo fece proprio mangiando una mela avvelenata. In altre parole anche la salvifica scienza del progresso può portare ad alcune conoscenze velenose, anzi fatali.

A questo punto ricapitoliamo quindi la strada percorsa. In primo luogo abbiamo analizzato il significato del simbolo dell’Albero cosmico e di cosa significa mangiare o meno il “frutto proibito” definito spesso “frutto dell’immortalità” o “della Vita”. In secondo luogo abbiamo visto come tale simbolo “centrale” possiede due significati opposti: in altre parole ha in sé sia l’odio che l’amore, sia la spontaneità e la che l’artificiosità e l’incoscienza (rappresentati nelle Upanishad dai due uccelli, uno che mangia il frutto mentre l’altro osserva coscientemente). Abbiamo quindi uno “sdoppiamento” degli Alberi e dei frutti, che non costituisce altro se non il corrispettivo di considerare le emozioni collegate a tali simboli come due opposti scissi piuttosto che uno spettro unico (i cui gradi hanno capo nei due opposti, ad esempio odio ed amore). Per sviscerare questo processo di “sdoppiamento” abbiamo analizzato il processo parallelo che è avvenuto all’immagine simbolica del pianeta Venere (la Grande Madre) a cui i “frutti di Vita” erano collegati (come anche i due loro “sostituti materiali” la mela ed il fico). In questo caso abbiamo visto come tale sdoppiamento sia strettamente legato ad alcuni fatti astronomici ed in dettaglio al sorgere del pianeta Venere, della sua posizione, la sua traiettoria e luminosità ed infine il suo rapporto rispetto al Sole. È venuto quindi chiarendosi il cambiamento avvenuto a partire dalla tarda antichità e proseguito nel medioevo, quando cioè, a seguito della traduzione di San Gerolamo si era oramai stabilita largamente l’identità del “frutto proibito” con la mela. Tale cambiamento è parallelo a quello avvenuto alla Venere mattutina, Lucifero, “portatore di luce”, divenuto un angelo ribelle autoproclamatosi principe del male. Similmente accade per il serpente, da simbolo di vita-morte e rinascita, diventa unilateralmente simbolo del male e del peccato, trascinando con sé il sesso, campo precipuo del suo simbolismo. Se prima le avventure premiavano chi si accorgeva della propria hybris, ovvero dell’inutilità di volere sempre di più e di opporsi quindi col proprio io al destino, ora questa inane fuga da se stessi viene semplicemente condannata, senza che sia prevista una presa di coscienza: in altre parole chi è malvagio è tutto malvagio. Non ha possibilità di rendersi conto del proprio complesso e sottomettersi al destino (quindi acquisire quella che per gli antichi era la somma virtù, la pietas). Questo perché il bene è ora pensato come del tutto scisso dal male: di conseguenza chi è malvagio è tutto malvagio e merita solo di ardere all’inferno senza alcuna pietà.

Facciamo una breve pausa per tornare al fico: esso conserva infatti il suo carattere doppio, costituito da una parte dall’energia vitale e fecondante, dall’altra dal desiderio di falsa conoscenza, di catalogazione, scissione e dominio del mondo. Tuttavia, contenendo entrambi i principi, il fatto di mantenere l’unità nell’albero e nel frutto rimanda alla possibilità di unificazione e sintesi. In altre parole, come nei miti antichi, il fico tramanda l’idea di un possibile superamento della scissione e della dualità (Conoscenza del bene e del male) per riacquistare l’Unità originaria. Per questo la bara di Osiride risorgente è un fico (sicomoro), come è sotto un fico che Buddha supera Maya e riceve l’illuminazione. Il principio negativo non è semplicemente ignorato o distrutto con la forza, ma viene integrato come gradino da superare, come pendice da cui si innalza la vetta della montagna.

Ritorniamo quindi alla mela divenuta simbolo del male, della carnalità, del serpente e del sesso come entità totalmente malvagie. Sappiamo che ad un certo punto questo paradigma giunse ad un’intensità tale da capovolgersi: la condanna e la repressione di ogni contatto con la corporeità, col sesso, con la curiosità e la conoscenza necessaria (quindi cose molto diverse da quella Conoscenza del bene e del male la cui natura abbiamo cercato di spiegare sopra), è divenuta ad un certo punto tanto aspra e totale da non poter più essere tollerata. Se dovessimo pensare ad un momento storico penseremmo certo alla Riforma protestante ed alla Controriforma: situazioni che esasperarono la lettera di molti dogmi che per la maggior parte non venivano più nemmeno compresi. A questo punto, infatti, non si comprendeva più cosa fosse questa Conoscenza del bene e del male, questa fuga da se stessi verso un infinito mai raggiunto ma continuamente ossessionante, questo vano andare contro i limiti ed il destino per dominare il mondo. E si scambiava invece il male per ben altre cose, in gran parte quelle manifestazioni che prima erano ritenuti chiari segni del principio benefico, come abbiamo visto parlando del fico (energia vitale, fecondità sessuale, conoscenza intuitiva e diretta, spontaneità).

Il capovolgimento di questa situazione di repressione senza più comprensione dei principi fu la reazione illuminista. Non capendo più quale fosse il male da reprimere, ovvero non essendo più nemmeno percepita la possibilità di una presa di coscienza, di un risveglio della consapevolezza, si pensò che tutto il male derivava in definitiva dal reprimere tutti quegli istinti, come si faceva “nel medioevo”. Quindi quello che si diceva prima essere male è in realtà il bene: basta non reprimerlo ed avremo il progresso infinito del genere umano: più denaro, più felicità, più dominio sul mondo naturale ecc. Ad esempio l’egoismo prima represso diventa ora una gran cosa, principio di tutta l’economia; e l’economia stessa, ritenuta prima una dottrina al limite dell’immoralità per la sua palesemente ingiusta gestione delle risorse si scopre ora essere una signora scienza, madre di ogni possibile felicità umana (ovviamente solo corporea, quello che prima era negato). E così via un po’ per tutti i principi, a seconda della difficoltà di “digerire” la conversione (ad esempio il sesso è uno dei campi più ostici alla digestione, che ricade prontamente nella repressione; il suo tabù è in effetti troppo stagionato, vigendo da millenni, e possiede inoltre in alcune accezioni notevoli vantaggi sociali e genetici). Tutto questo rivolgimento vale ovviamente anche per il simbolo stesso del male: la mela.

Non si tratta più di una fetida prova della caduta, ricettacolo di ogni male, ma diventa ora anzi un grande strumento di riscatto umano (perché ora la superbia e l’ipertrofia dell’io sono premiate e giudicate positive!). La mela che colpisce al capo Newton è un segno della nuova conoscenza empirica che giunge per dare salvezza al genere umano. È un vero colpo di genio, un colpo che libera la ragione umana dai vincoli della natura, del destino, di ogni valore (quindi bellezza, bene e giustizia). L’uomo può fare quello che vuole e la mela, conoscenza scientifica che si perfezione di generazione in generazione all’infinito, gli da il potere di osare, osare sempre ed avanzare, avanzare senza fermarsi, non importa quante rovine ci si lascia dietro, si distrugge per ricostruire meglio in vista di un infinito che, per definizione, non arriverà mai.

Eccoci quindi giunti alla fine della trasformazione di questo simbolo. Come si sarà certo notato tale mutazione è strettamente connessa con quella dello spirito dell’Occidente, come dimostra il confronto col simbolo del fico, con cui in Oriente è stato identificato il “frutto del peccato”: il suo significato rimane infatti costante, come una salda colonna, come una freccia puntata immancabilmente verso il risveglio.

 

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