dott.prof. Nazzareno Venturi

anno accademico 2005/2006 corso di psicologia dell'arte u3

Vincent Van Gogh

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Conoscere la vita di un'artista è fatto essenziale per capirne l'opera. In particolar modo questo assioma vale per Van Gogh, ciò permette di superare diversi pregiudizi che circondano la sua persona. Uno di questi è quello di situare la sua pittura in un contesto di ingenuo spontaneismo, seppur geniale, quasi naïf, oppure di esasperare il concetto di arte di un folle. Nulla di tutto ciò: Van Gogh conosceva bene la storia dell'arte, gli stili, ed aveva scrupolosamente cercato  di far evolvere sempre di più la sua arte in modo consapevolmente libero dalla ripetitività formale ed accademica. Ogni suo studio era filtrato dalla propria autenticità, da una ricerca personale di realtà oltre i muri dell'apparenza delle mode e delle consuetudini.  Sbandato e stravagante fin che si vuole e pur aggiungendo qualche bicchiere di vino di troppo e qualche episodio isterico non fanno di lui uno schizofrenico. Aveva una stanzetta personale nel >manicomio di Saint-Rémy in cui poteva entrare ed uscire a piacimento con le proprie chiavi. Le sue crisi epilettiche (allora non curabili ) , male ereditato dalla famiglia,  si intensificheranno negli ultimi anni della sua vita insieme agli esaurimenti , alle angosce esistenziali, fino a porterlo al suo presunto suicidio. Ma fino alla fine rimase cosciente di quanto faceva: "io del mio corpo faccio quello che voglio" disse ai carabinieri  che vennero ad indagare sull'accaduto: il colpo mortale che si sparò di striscio all'addome. E fu consapevole  delle sue crisi, riconosceva di essere malato in quei  suoi ultimi anni tormentati: eppure anche in questo periodo i suoi quadri e le sue lettere testimoniano che non era un alienato. Chi gli è stato vicino, chi lo conosceva gli voleva bene, lo stimava e pianse quell'umanità ricchissima che se n'era andata. Era il 27 luglio 1989 e aveva 37 anni.

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L'episodio dell'orecchio forse è del tutto banale. Intanto si trattava di un lobo tagliato. Cosa successe? Era l'atto di un pazzo o qualcosa di fortuito che lui "drammatizzò" donandolo, chissà per quale motivo simbolico tutto suo,  ad una  prostituta? E se fosse stata  una sforbiciata sbagliata nel tagliarsi i capelli da solo? O ancora una bravata compiuta dopo essersi sbronzato completamente nel bordello? Gabriele Mandel , medico e psicologo, nel suo studio su Van Gogh (Mondadori ed.) avanza anche questa ipotesi: lui era un "fanatico" dell'arte e della cultura estremo orientale ed avrà quindi conosciuto, almeno vagamente, quell'arte medica dell'agopuntura, quegli incroci delle energie uno dei quali tra i più importanti sta proprio nel lobo dell'orecchio. Avrà saputo che in quel punto si può lenire (almeno così la credenza) l'irruenza istintuale: un grossolano, ingenuo tentativo di porre rimedio ai suoi problemi?

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 Lo stesso autore  individua correttamente anche una causa antica nelle crisi di identità del nostro: il fatto che i suoi genitori gli dettero il nome "Vincent" che apparteneva al fratellino morto che lo precedeva. A due passi da casa sua la piccola lapide nel cimitero di Zundert, (ultima zona belga al confine con l'Olanda)  gli ricordava di essere  una  sorta di "sostituzione". L'esperienza psicoterapeutica dimostra quanta  importanza abbia il nome nella vita di una persona tanto è associato a sensazioni e pensieri postivi o negativi.

Certo è che Vincent condurrà una vita anno dopo anno sempre più da scapestrato. Aveva avuto pure in mano la possibilità di inquadrare la propria esistenza proseguendo l'attività di pastore e predicatore di suo padre. Il fervore religioso non gli mancava, pronto com'era ad aiutare la povera gente , ma non era disposto ad accettare  dogmatismi  e  farisaiche ipocrisie . Il vissuto religioso per lui doveva essere spontaneo, dettato dalla natura stessa in modo panteistico, come le sue lettere e i suoi quadri documentano.

Dopo un amore "ideale" non ricambiato, quello con Ursula, le sue donne furono prostitute. Da una di esse contrasse la blenorragia e fu costretto al ricovero per essere curato. Finì quindi per non credere più all'amore, ad una vita affettiva stabile e tranquilla, almeno per lui stesso.

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Di puro gli rimaneva la pittura, l'unica cosa per cui valesse vivere : l'arte. E i suoi studi, le sue ricerche artistiche furono febbrili. Cercò di dipingere la realtà del sentito facendo precedere il colore alla forma (ossia  l'emozione alla riflessione). Quante volte rimase sotto il vento e al freddo con poco e nulla da mangiare per dipingere i suoi paesaggi, quasi a coglier nella natura quel divino di verità, di infinità, che in realtà lo assetava dentro! Oppure dipingeva non il mondo falso e costruito della borghesia ma quello della gente che lavora, che fatica, che geme o  si perde nella miseria dell'abbandono.

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Divenne amico di diversi artisti tra cui Gauguin ( quadro successivo) : tanto era modesto Vincent tanto era spaccone Paul. Dopo la morte dell'amico quest'ultimo trovò modo di esaltarsi dichiarando che tutto quel che c'era di buono nell'arte di Van Gogh era merito suo, del suo insegnamento. E dire che il sogno di Van Gogh era di creare una comunità di artisti, un luogo in cui potessero aiutarsi a vicenda soprattutto con la ricchezza delle idee e dell'esperienza, dove al posto dell'invidia e della esaltazione personale regnasse la fratellanza , l'unità nell' ideale della bellezza.

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Ma l'unica presenza costante  nella sua vita a sorreggerlo moralmente con una sincera fiducia nella sua arte e finanziariamente fu il fratello Theo. Già da ragazzini si promisero a vicenda di aiutarsi per tutta la vita, di mantenersi in rapporto scrivendosi. E così fu. Tutti e due vissero per l'arte anche se Theo come intenditore nel mondo del mercato. Un legame sottile li legò: l'uno si gettò allo sbaraglio nella vita, l'altro cercò punti di riferimento stabili nel lavoro e negli affetti. Anche il destino li unì: dopo la morte del fratello, Theo non resse più anche   psicologicamente e dopo sei mesi morì.

ngeneroso e prevenuto nei confronti di Van Gogh è invece lo psichiatra J.A.Vallejo nel suo "pazzi celebri" (ed.Rizzoli). Pur riconoscendo in lui un "genio" inscrive la sua opera come il prodotto di un moto alienato. Non è l'unico: a cominciare dal filosofo Jaspers (psichiatra pure lui) molti hanno condiviso la lettura delle opere di Van Gogh in questo senso  diffondendo il  pregiudizio . Certo è che se follia è aprire l'inconscio ad una sensibilità, ad una penetrazione del reale, ad una creatività che allarga i confini dell'umanità bisogna rivedere il concetto stesso di follia e ben venga il matto ad arricchire l'umanità. Questo ovviamente senza dimenticare le stravaganze e le crisi del nostro, le quali, però sono talvolta lo scotto da pagare se si vuole andare oltre i condizionamenti del consueto ed in una più profonda conoscenza di se stessi.

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Comunque sia se Van Gogh si fosse rassegnato ad inquadrasi in uno schema prefissato da benpensante si sarebbe atrofizzato nella mediocrità. Non ci sarebbe stato Van Gogh. Egli invece ha proseguito nella sua ricerca, senza preoccuparsi delle critiche frenanti, un cammino costellato anche di aperture ad una serenità e ad una pace che lui stesso si prefigurava come qualcosa di trascendente.

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Una riflessione lo accompagnò tutta la vita: che l'uomo è come una bruco che non ha in sé la consapevolezza di diventare farfalla. Vede il mondo in una dimensione piatta ed angusta e altro non può immaginare. L'artista è l'iniziato che percepisce una trasformazione che si compirà dopo la morte in altri mondi, in altri stati dove proseguirà il cammino. Per avvicinarsi più in fretta a queste stelle della sua anima Vincent forse si tolse la vita. Non è romanzo, questo diceva e scriveva con l'ingenuità stupefatta del bambino ma anche con una rarissima capacità intuitiva, quella stessa che gli ha permesso di anticipare l'espressionismo e l'astratto. In ogni casi il suo presunto suicidio ("...io del mio corpo faccio quello che voglio" : a meno che non si tratti, come afferma il prof.Gabriele Mandel , di un altro rozzo tentativo di risolvere la diverticolite di cui soffriva sparandosi di striscio  sul gonfiore del ventre) come ogni evento e parola della sua vita non sono da prendersi a sé per essere giudicati. Rimane l'opera che è un dono che l'umanità ha fatto a se stessa. Questa basta, la vita non serve più, era come legna da ardere per dar luce e calore.

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dott.prof. Nazzareno Venturi

anno accademico 2005/2006 corso di psicologia dell'arte u3

 

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